NELLA SCIA DI LUCIANO
Abbiamo chiesto ad alcuni atleti, clienti e amici di Effetto Mariposa di raccontarci come vivono la loro passione per bicicletta.
Oggi è il turno di Jacek Berruti, uno dei creatori del Museo della bicicletta di Cosseria (SV), volto de “L’Eroica” e cultore di storia del ciclismo.
Anche chi non segue assiduamente il ciclismo spesso conosce l’Eroica, la gara per bici d’epoca nata a Gaiole in Chianti. In questo paesino toscano ogni anno migliaia di turisti e ciclisti, provenienti da tutto il mondo, lottano per avere un posto alla partenza e provare “la bellezza della fatica e il gusto dell’impresa”, pedalando sulle strade bianche di un tempo.
Il successo clamoroso dell’Eroica trascende la pura pedalata perché a Gaiole non si tratta solo di fatica e bicicletta: l’Eroica è folklore, gastronomia, paesaggio, storia. Ogni evento ha il suo simbolo che si rispetti e il simbolo dell’Eroica è, indiscutibilmente, Luciano “Lucky” Berruti. Quel ciclista coi baffi, appunto, a manubrio, vestito di tutto punto come Ottavio Bottecchia o uno dei fratelli Pélissier che svetta su ogni cartellone o poster della gara. Un ciclista che sembra sbucato da qualche strano cortocircuito spazio-temporale direttamente da La grande boucle del 1915 o giù di lì.
Perché Luciano era eroico prima dell’Eroica, lui le bici d’epoca le cercava e restaurava quando erano solo ferro da macero, collezionandone a centinaia fino ad aprire un museo nella sua Cosseria, in provincia di Savona. Tutto questo fino al 2017, quando Luciano ci ha lasciati, pedalando su una delle sue salite.
A raccoglierne il testimone c’è ora suo figlio Jacek che sta mantenendo viva la passione di famiglia portando avanti il Museo e le sue iniziative.
Jacek, come va con il Museo della Bicicletta?
“Bene, abbiamo in ballo, come sempre, molte attività. Prima di tutto puntiamo al turismo: abbiamo appena finito un corso di mountain bike con Louise Paulin, campionessa del mondo di Enduro World Series. Promuoviamo itinerari guidati nelle nostre zone, visto che il Covid sta trainando il turismo di prossimità e qui siamo tra il mare e le Langhe, un luogo strategico.
Poi stiamo studiando una formula in cui un visitatore del Museo viene messo alla prova nel montaggio di alcune bici, per un’esperienza di visita nuova e interattiva. Ci hanno anche chiamato per fare un” bike corner” in un bar. Poi puliamo i sentieri per la MTB, mi dà una mano anche mio fratello Leszek.”
Jacek e Leszek: siete due fratelli nati e cresciuti in Italia ma avete nomi polacchi e già qui c’è un pezzo della storia di vostro padre Luciano…
“Sì, perché mio padre, da ragazzo, si mise in testa di andare a Mosca in moto! Questo perché nel dopoguerra, nel savonese, si parlava molto male dell’Est Europa. Lui non credeva a certe maldicenze, diceva “è impossibile che là mangino i bambini, non diciamo cavolate”. Così, con la sua proverbiale testa dura, partì per andare a conoscere questi popoli “brutti e cattivi”: con un piccolo zaino e poche lire, negli anni ‘60, accese la sua moto sgangherata con direzione Mosca. Dopo mille vicissitudini, a Mosca non arrivò mai: ruppe la moto più volte e finì presto i pochi soldi che aveva. Ma il viaggio non fu vano: scoprì che l’Ex Unione Sovietica era un luogo accogliente, affascinante e con abitanti solidali. Si fece molti amici, alcuni mi chiamano ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, per raccontarmi di come lo aiutarono a riparare la sua vecchia moto. Inoltre, cosa più importante, conobbe mia madre e si sposarono.”
Ho ancora il biglietto da visita di tuo padre che mi diede, credo 15 anni fa: è in bianco e nero, su carta ruvida, con ritratto lui in posa di fianco a un velocipede e la scritta “Luciano Berruti – velocipedista”. A quei tempi suonava strano, ai più sembrava la stramberia di un personaggio curioso. Oggi l’Eroica, che lui ha contribuito a creare, ha eventi in tutta Europa, Giappone, America, Sud Africa.
“Sì, lo spirito dell’Eroica era rappresentato in toto da mio padre. Quella tra lui e l’Eroica è stata una sorta di crescita complementare, avevano bisogno l’uno dell’altro e si sono incontrati.”
Quando e perché tuo padre ha cominciato a collezionare e restaurare le bici d’epoca? E come le trovava?
“Mio padre ha sempre avuto la passione per il ciclismo, non scendeva mai dalla sua bici, era in simbiosi col mezzo. Ma il suo approccio era diverso, guardava agli albori del ciclismo: voleva trovare le bici che hanno vinto i primi Tour e Giri. Così, ne recuperò alcune degli anni ‘10, ‘20 e ‘30, trattate ai tempi come ferri vecchi. Quando tutti buttavano via, lui accumulava, pensando che un domani sarebbero state rarità.
Ma non si limitò a collezionarle: lui ci voleva correre. A fine anni ‘80 si presentò a una cronoscalata a Savona con una bici degli anni ‘20. Una cosa impensabile. La direzione non lo fece partire, pensavano a una presa in giro, a una goliardata. Lui invece voleva provare le sensazioni dei primi ciclisti che usavano bici da 16 chili, usare gli stessi rapporti, gli stessi materiali, frenare con quei freni incerti. La sua rivincita è arrivata: a distanza di quarant’anni, oggi, se ti presenti all’Eroica con una bici nuova non puoi partire.”
Una cosa che mi disse riguardo la sua filosofia è che lui cercava la veridicità delle bici e dell’impresa, non il semplice collezionismo.
“Esatto, quella è sempre stata la sua filosofia. Per questo, per citare alcune delle sue imprese, ha scalato il Mortirolo con bici Griffon del 1915 di 15 kg e un unico rapporto da 42×26. Oppure, ha corso la Paris-Roubaix con la sua Peugeot del 1916 da 16 kg e il rapporto da 44×15.
Lui diventava un ciclista del tempo: in discesa frenava spesso inserendo un tronco nel pedale da raschiare per terra spingendo con forza col piede, come si faceva una volta per sopperire alla mancanza di freni efficienti nelle lunghe discese sterrate alpine. Ha riparato copertoni squarciati riempiendoli di erba e foglie di granoturco, percorrendo in quello stato centinaia di chilometri. Leggeva continuamente le mirabolanti avventure sui libri dei ciclisti degli albori e si chiedeva: “cosa provavano quegli uomini? Io voglio fare come loro”. Così partiva alle 4 del mattino per la Paris-Roubaix con completo e bici degli anni ‘10, senza cibo e scorte, senza niente, come una volta. In qualche modo, se la doveva cavare. Si fermava dove serviva, gli davano da mangiare e da bere. Mangiava persino alcuni pezzi di barrette che trovava buttati a terra.
Lo faceva perché voleva capire come reagivano il corpo, le gambe, la bici in una corsa dei primi del ‘900. Voleva immedesimarsi in tutto e per tutto con quelle esperienze, soffrire, faticare come quegli uomini. Mi ha portato a fare la Milano-Sanremo con bici d’epoca: siamo partiti a mezzanotte da Milano con 5 gradi e una pioggia battente. Ad Arenzano io stavo male, ero semi-congelato e rischiavo di svenire ma non mollavo. Lui era orgoglioso di me perché non avevo indosso nessun materiale moderno e non avevo da mangiare.
Se ce l’hanno fatta ai tempi, ce la faremo anche noi, diceva. E ce la facemmo. Abbiamo corso la gara come una volta e, sicuramente, ai tempi era ancora peggio. Solo ora, dopo quella esperienza, se parlo di ciclismo eroico approccio l’argomento nel modo giusto: un po’ di quel piatto l’ho assaggiato.”
Se ricordiamo Luciano, nella nostra mente viene subito visualizzata l’immagine del protagonista de L’Eroica, cittadino onorario di Gaiole in Chianti. Ma, oltre a questo, Luciano Berruti era anche un ciclista che, in gergo, “menava forte”. Da amatore ha vinto oltre 450 gare!
“Mio padre è stato un allievo a buoni livelli. Era un “gregarione”, troppo generoso e poco scaltro, andava di forza pura e non aveva strategie di gara.
Lui ha sempre corso in maniera “On-Off”: partiva e, semplicemente, andava a manetta per tutta la gara (ride).
Così smise presto e riprese da amatore a 40 anni, vincendo diversi titoli e più di 400 gare su strada, Ciclocross e MTB. Con la MTB si è tolto molte soddisfazioni, anche perché andava in discesa come un kamikaze, era un po’ pazzo. Ha creato molti sentieri, era un trail builder antesignano. Anche io ora uso la MTB da qualche anno, me l’ha fatta scoprire la mia compagna, Elena Martinello, ed è un mondo che mi piace, mi affascina. Come prodotti Effetto Mariposa porto sempre con me le bombolette Espresso Gonfia e ripara, poi uso il Caffélatex con lo ZOT e lo shelter per proteggere il telaio dalla catena. Inoltre, credo che, per maneggiare le bici di oggi, le chiavi dinamometriche siano sempre più importanti.”
Tuo padre aveva un modo di fare genuino che catturava tutti in un attimo, un linguaggio universale.
“Questo perché raccontava le cose per condivisione, mai per vantarsi. E si faceva capire da tutti, in tutto il mondo. Mille volte ho visto capannelli di ascoltatori intorno a lui di ogni nazionalità. Sapeva solo l’italiano ma parlava, realmente, tutte le lingue del mondo. Giancarlo Brocci, fondatore de l’Eroica e suo grande amico, racconta sempre un aneddoto: erano in Uruguay per un evento quando mio padre, durante una cena, decise di andare via prima per andare a dormire. Dopo mezz’ora Giancarlo uscì dal ristorante e vide mio padre nel parcheggio del ristorante che raccontava della sua bici a trenta persone in cerchio. Ha parlato per mezz’ora a trenta persone, in Uruguay! (ride, nda)”
Di tuo padre mi ha sempre stupito il fatto che fosse realmente mosso dalla sola passione: aveva il suo lavoro e ha sempre rinunciato a sponsorizzazioni e ruoli di prestigio, una cosa rara. Inoltre, è riuscito a collezionare centinaia di bici importanti senza essere una persona abbiente…
“Lui ha sempre avuto una sola casa che si è costruito da solo facendo due lavori. Da piccolo lo vedevamo poco proprio perché lavorava sempre, ha sempre fatto soprattutto il carpentiere. D’altronde, veniva da una famiglia poverissima di tre fratelli. Tutti noi Berruti teniamo molto alle nostre origini umili. Sono anche molto utili quando devi giocarti una corsa. Se devo combattere contro una persona agiata, ho una marcia in più. Una volta, fare il ciclista era comunque meno faticoso che lavorare come camallo al porto o come manovale, per molti versi era l’opposto di oggi. E mio padre ammirava proprio i campioni umili, come Ottavio Bottecchia, uno dei suoi preferiti insieme a Gino Bartali. Oggi, se senti parlare Egan Bernal ha le origini contadine di quei campioni del passato e anche per questo sa soffrire e vincere.”
Questo aspetto di Bernal ce l’ha raccontato anche uno dei suoi scopritori, Paolo Alberati. Paolo ci faceva proprio notare che i ciclisti più forti oggi sono spesso colombiani, proprio per l’estrazione contadina e la resistenza ad ogni fatica.
“È davvero così. Conosco bene Esteban Chaves, ha una forza e una semplicità che qui abbiamo un po’ perso. Parlai con lui dopo che perse la maglia Rosa al Giro d’Italia 2016, ero lì. Esteban era contento come una Pasqua perché era arrivato secondo dietro a un campione come Nibali! Inoltre, diceva che i suoi genitori non erano mai usciti dal loro paesino in Colombia e quel giorno erano lì con lui, gli bastava quello per essere felice.”
Tu vai un po’ in controtendenza rispetto a un aspetto modaiolo del ciclismo. Hai detto che “il ciclismo non è il nuovo golf”.
“Ben venga ogni tipo di ciclismo, l’importante è pedalare. Però per me il ciclismo è soprattutto uno sport popolare, non deve essere classista. Sono per un approccio più puro, essenziale: il biglietto da visita di un ciclista non dev’essere la bici che guida, la scarpa che ha, il completo che indossa. Per me se uno si presenta con i calzini di lana, il casco storto, gli occhiali da vista è uno del gruppo comunque, sono contento che sia venuto a pedalare e lo “misurerò” sulla strada, non da quanto ha speso.
Dobbiamo badare di più al sodo, come fanno spesso all’estero: ho visto percorrere il Giro delle Fiandre amatori da ciclisti vestiti con i jeans e il marsupio. Là pedalano tutti senza fisime e nemmeno guardano le previsioni del tempo.
Quando vado a correre con la mia Gios in acciaio, spesso mi guardano come un alieno, poi magari scollino per primo. Ho avuto anche la fortuna di essere “suonato” da persone a cui non avrei dato 50 centesimi alla partenza.
Diciamo che oggi ho attraversato la mia parabola ciclistica e acquisito la consapevolezza di ciò che serve per il mio ciclismo: anni fa cercavo la bici top di gamma, le ruote ad alto profilo, oggi voglio essere sicuro in caso di vento e le ruote le voglio rigorosamente basse. Non cerco più le geometrie da professionista ma angoli più rilassati: niente forcelle dritte e carri troppo corti che rendono le bici troppo reattive, infatti spesso il cicloamatore medio non le sa guidare. Uso i copertoncini un po’ più sgonfi ma più guidabili.
Dovresti provare una bici degli anni ‘20… è comodissima e molto stabile, ha una guidabilità incredibile, visto che ha un passo da mozzo a mozzo lungo come quello di un camion! (ride, nda).”
La usi ancora la ruota gigante per bici che hai dietro casa? Perché l’avete costruita?
“Già, dietro casa di mio padre abbiamo questa ruota da ciclisti di 4 metri di diametro. L’idea è nata come sempre, grazie alla curiosità e testardaggine di mio padre. Lui la sera si metteva davanti alla stufa e sfogliava vecchi libri e giornali sul ciclismo. In uno di questi giornali, una sera, vide una foto degli anni ‘20 o ‘30 di un ciclista, in stile circense, che pedalava dentro una ruota gigante. Mi disse: “la voglio costruire”. Era una pazzia, si trattava di fare una ruota grande come una casa. Ma lui l’ha fatta! Così, una volta ultimata, la usava spesso con una bici d’epoca, come una sorta di rulli preistorici. Io ho un po’ di paura a usarla, è estremamente pericolosa: se malauguratamente dovessi caderci dentro, lei ti porta su a quattro metri e ti sbatte sul mozzo, poi ti riporta su e ti sbatte di nuovo sul mozzo, finché non si ferma… facile lasciarci le penne. E non si ferma facilmente, visto che scorre anche benissimo perché ha dei cuscinetti fantastici!”
Per ricreare l’atmosfera d’epoca anche a casa vostra, in garage avete costruito un’antica officina di fine ‘800. Entrandovi, la sensazione è incredibile: ci si ritrova proiettati in quei tempi.
“Sì, è costruita con tutti materiali veri, recuperati da mio padre col trattore dalle case abbandonate che cadevano nel bosco. Non c’è nulla di riprodotto, nulla di finto. Entrando lì dentro, senti i profumi del tempo che fu: c’è la ruggine, il ferro, il vecchio legno, anche i fili della luce sono dell’epoca. Quello è il nostro sacrario: spesso vado lì, mi siedo su quella vecchia seggiola in silenzio ed è come una seduta di yoga o una preghiera.”
Dopo il film “L’Eroico”, il documentario “Veloretro” e molte attività in ballo, mi sembra che siate sempre molto attivi…
“Lavoriamo ogni giorno per rendere il mondo più “bike friendly”. Mi auguro di riuscire a fare da volano ai valori che mi ha insegnato mio padre, di riuscire a portare avanti il suo messaggio a modo mio. Con il Museo della Bicicletta vogliamo promuovere un ciclismo etico perché un buon ciclista è anche una persona perbene nella vita, che aiuta gli ultimi, sorride agli altri e rispetta tutti.
Poi ho un piccolo sogno: la Peugeot del 1916 di mio padre, la sua bici personale, ha girato con lui tutti i continenti tranne l’Oceania. Mi piacerebbe portarla anche lì.”
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